Uno scrittore in nero

Uno scrittore in nero

Come si intrecciano i tarocchi, la magia rossa, il tarantismo, l’ufologia, Piero Angela e la Xylella? Un intenso pomeriggio di scrittura della scienza alla libreria “Spazio Sette” organizzato dal master “La scienza nella pratica giornalistica” dell’Università Sapienza e dal gruppo National Biodiversity Future Center. Pascale racconta del mondo contadino del Sud italiano di inizio XX secolo prima dell’arrivo della lavatrice. Dalle “messe di morte” all’industrializzazione della scienza. Dalla superstizione alla conoscenza della materia di cui si parla. La metafora del grano incornicia la crescita demografica e la transizione culturale, fino alla completa realizzazione di quello che Pascale definisce il format-Pinocchio. In precedenza, l’alimentazione con la segale, spesso contaminata da un fungo, provocava allucinazioni (ergotismo) o persino morte. Con il passaggio al grano, immune al patogeno, si realizza in pieno il famoso miracolo di Sant’Antonio Abate emblema, allo stesso tempo, del fraintendimento della scienza tipico del popolo. Oggi non più “schiavi del maggese”, ma abitanti del “paese dei balocchi”.

Antonio Pascale, napoletano di origine e romano di adozione, è giornalista e autore pluripremiato di numerosi libri. Ha esordito con “La città distratta” (Einaudi) nel 1999 ed è anche ispettore presso il Ministero delle Politiche Agricole. Il Post ospita il suo blog che indaga vicende agricole e sociali con uno sguardo sociopsicologico. Infatti, nel romanzo “La foglia di fico”. Storie di alberi, donne, uomini” (Einaudi), Pascale racconta della battaglia di un suo amico botanico contro il contagio degli olivi da parte del batterio Xylella fastidiosa – si contano milioni di piante disseccate – che è stato accusato di essere al servizio delle multinazionali. Molti abitanti del posto si sono opposti all’abbattimento e questo ha impedito il contenimento dell’epidemia. Ma non si contano sulle dita le tematiche trattate da Pascale nei suoi libri, così come i suoi premi che testimoniano la sua mission sociale e culturale.

Oltre a scrittore e saggista, lei è anche un ispettore del Mipaaf (adesso Masap). Secondo la sua esperienza quali sono gli elementi di divergenza e affinità tra questo mondo istituzionale e quello da scrittore?

L’agricoltura è una specie di mare su cui poggiano un sacco di barche, ogni barca è una disciplina. Noi non ci rendiamo conto del fatto che le prime comunità agricole sono state anche le prime comunità astronomiche, cioè quelle che hanno guardato il cielo perché avevano la pancia piena. È grazie all’agricoltura che abbiamo guardato le stelle e abbiamo costruito un arco che va dalla terra al cielo e dunque credo che una buona base su cui poggiare i piedi sia necessaria per alzare lo sguardo. Perciò ritengo necessario il racconto dell’agricoltura perché è una forma di narrativa grazie alla quale noi possiamo poi alzare gli occhi al cielo.

E quindi le divergenze quali sono tra il mondo istituzionale che ovviamente le rappresenta? Sono mondi separati oppure c’è un collegamento?

Vuoi sapere se i ministeriali leggono? Diciamo che mi chiamano per scrivere i biglietti di condoglianze quando c’è qualche morto o qualcuno che si sposa! Posso dire che la maggior parte si interessa ai lettori, ma in realtà questo è il simbolo di una tendenza diffusa, cioè non abbiamo grandi lettori in Italia.

Per lei invece quali sono stati nel corso della sua carriera e della sua vita i maestri di scrittura che hanno rappresentato e rappresentano un punto di riferimento nella sua vita professionale e non?

Sono cambiati. Quando ero ragazzino c’erano i miti greci, Omero mi piaceva molto, poi strada facendo ho cambiato e mi sono interessato a Bukowski. Mi piaceva il fatto che si ubriacava e andava a donne. Mi sembrava un bel modo di vivere. Poi mi sono un po’ più raffinato leggendo Cechov, arrivando fino ai giorni nostri con Alice Muso, una scrittrice canadese.

Nel suo libro “La manutenzione degli affetti” lei descrive la qualità del ceto medio imborghesito come la capacità di rappresentare un’idea. È comunque anche una caratteristica dello scrittore. Lo scrittore oggi ha le stesse finalità di quel ceto medio imborghesito? Quali sono i suoi intenti? 

Credo che lo scrittore si occupi di storie. Le storie servono a leggere il mondo, hanno una forma che ci permette di intercettare una parte del mondo. In sintesi, direi che le forme tradizionali ne spiegano solo una piccola parte. Oggi il mondo è molto complesso, noi lo siamo di più e abbiamo bisogno di forme narrative diverse da quelle tradizionali che possano fornirci maggiori informazioni su noi stessi. Raccontiamo le storie ancora allo stesso modo degli antichi, con il “c’era una volta”, e questo approccio semplificato è incompatibile con il dibattito culturale e narrativo odierno. D’altra parte, il lettore, io stesso, non sempre è disposto o ha tempo per leggere una narrativa non convenzionale. Siamo all’interno di un circolo vizioso in cui alla fine vincono sempre gli stessi: i commissari, le sagre familiari, le storie d’amore romantiche. Il mondo però sta cambiando tantissimo e velocemente.

Quindi lo scrittore deve raccontare il cambiamento?

Dev’essere una persona inquieta che non è appagata sempre dallo stesso modo di raccontare. Credo che in questo debba assomigliare a uno scienziato che a un certo punto dice “ho sbagliato tutto, ammetto il mio errore” e poi ricomincia a misurare. Ecco, secondo me lo scrittore dovrebbe essere così.

Ricorda un po’ Calvino, nella sua critica del romanzo e delle strutture narrative vecchie.

Calvino in questo è stato anche un anticipatore, almeno aveva un’idea di come stava andando il mondo.

Con riferimento al caso Xylella, come lei ha detto è stata frutto dell’ignoranza e della negligenza umana. In che modo crede sia possibile sensibilizzare il pubblico, dal più esperto al meno esperto, su una maggiore consapevolezza ambientale e alimentare?

Dal punto di vista ambientale penso che un po’ tutti abbiano capito che c’è un 

problema, almeno concordiamo sull’obiettivo. Quello che è più difficile far capire è quali strumenti utilizzare per raggiungerlo. Gli strumenti che stiamo proponendo sono troppo semplici e spesso inefficaci, perché non tengono conto della dura realtà dei numeri. A me piacerebbe, al di là della concordanza sugli obiettivi, capire quali strumenti usare e prima di questo bisognerebbe discutere con poche persone, perché secondo me anche le poche persone che si occupano di questo problema hanno delle idee confuse su alcune questioni. Quindi andrebbe fatto un ragionamento con le persone più attente per capire se gli strumenti che vogliamo proporre sono efficaci o no. Subito dopo, trovato un accordo, si può provare a parlarne. 

Cioè la base sono gli strumenti?

Esatto. Le tecnologie quali sono? Si può fare o non si può fare un termovalorizzatore? Il nucleare va rivisto o no? Insomma, sono cose serie, se noi opponiamo a questi strumenti l’ideologia o delle nostre sensazioni emotive non facciamo un buon servizio all’ambiente. La mia paura è che, domati e suggestionati dalle emotività, non ci applichiamo seriamente alle soluzioni.

Antonio Pascale, agronomo, ispettore del Ministero dell’agricoltura e scrittore. 

Tiziano Alimandi, Paturzo Marco, Castiglione Alessio, Alessandra Romano studenti del Master “La Scienza nella Pratica Giornalistica” della Sapienza Università di Roma