ambientalismo di facciata

un verde sbagliato

Sono sempre più le aziende che cercano di ripulire la propria immagine con un ambientalismo di facciata. Che fa solo danni

Cambio dei colori delle confezioni: dai toni accesi alle tinte pastello, possibilmente sul verde o sul marrone. Caratteri tipografici non più squadrati, ma morbidi, che ricordano la scrittura a mano libera. E poi nuovi slogan, con parole chiave che però sono già state ascoltate migliaia di volte – natura, sostenibilità, ecologia, o, ancora meglio, in inglese: carbon neutrality, plastic free. Sono (alcuni tra) gli strumenti di marketing che caratterizzano l’odiosa pratica del greenwashing, quella con cui le aziende cercano di “ripulire” la propria immagine descrivendosi come sostenitrici di valori ecologisti e ambientalisti. Una pratica sempre più diffusa, così dicono i numeri, della quale però non esiste una definizione univoca e neanche una traduzione in italiano – e a cui tra l’altro se ne sono affiancate altre analoghe, tra cui il pinkwashing (femminismo di facciata), il purplewashing (uguaglianza di genere di facciata), il rainbow washing (uguaglianza di inclinazioni sessuali di facciata), eccetera. 

Il termine greenwashing è stato coniato nel 1986 da un ambientalista statunitense, Jay Westerveld, autore di un saggio a proposito della pratica delle grandi catene alberghiere di incentivare i propri clienti, con fogli ed etichette lasciati nelle camere, a riutilizzare gli asciugamani: “In verità queste aziende – scriveva Westerveld – non fanno alcuno sforzo per ridurre lo spreco di energia. Il riuso degli asciugamani fa loro risparmiare sulla lavanderia: l’obiettivo fondamentale [di queste operazioni] è l’aumento del profitto. Tutti gli atti redditizi e ‘ambientalmente coscienziosi’, ma inefficaci, possono essere etichettati come greenwashing”. 

Dicevamo che però non c’è un’unica definizione del termine: nel loro Greenwashing Revisited: In Search of a Typology and Accusation-Based Definition Incorporating Legitimacy Strategies, pubblicato nel 2015, Peter Seele e Lucia Gatti hanno cercato di mettere un po’ d’ordine nella questione, proponendo una definizione condivisa del termine (e dei suoi effetti), evidenziando che “la principale lacuna delle definizioni esistenti è di origine epistemologica: nessuna delle definizioni esistenti riconosce la natura interrelazionale del fenomeno o l’importanza delle accuse di greenwashing mosse da un soggetto esterno. La maggior parte delle definizioni considera il greenwashing solo come un modus operandi aziendale, senza però affrontare gli aspetti cognitivi associati al fenomeno”. E comunque, in barba a quest’incertezza – o forse proprio a causa di questa zona grigia – lo scenario è continuato a peggiorare. 

Se nel 1991 uno studio della American Marketing Association aveva mostrato che oltre la metà di tutti gli slogan pubblicitari con contenuto ambientalista conteneva almeno un messaggio fuorviante, quelli successivi hanno confermato la tendenza. Evidentemente passare per aziende amiche dell’ambiente anche senza esserlo davvero fa ancora vendere di più – e ha raggiunto proporzioni preoccupanti: uno studio condotto a novembre 2023 da Influence Map, un think tank di esperti fondato dopo la firma degli Accordi di Parigi del 2015, ha analizzato un campione di trecento tra le più importanti aziende al mondo (selezionate dalla rivista Forbes) e ha scoperto che quasi quattro su dieci sono “a rischio” greenwashing. Un risultato definito “preoccupante” da Catherine McKenna, fondatrice di Climate and Nature Solutions e presidentessa del gruppo di esperti di alto livello del Segretario generale delle Nazioni Unite sugli impegni net zero (ossia quelli che hanno l’obiettivo di raggiungere un pareggio nel bilancio delle emissioni e ricattura dei gas serra): “Questo studio – ha dichiarato McKenna – dovrebbe costituire un campanello d’allarme per le aziende di tutto il mondo. È chiaro che, mentre le aziende si affrettano a mostrare i loro impegni climatici, troppe di loro non sostengono una politica governativa positiva sul clima. Non solo molte aziende scelgono di indebolire i propri impegni climatici esercitando pressioni contro l’azione per il clima, ma i loro impegni per l’azzeramento delle emissioni nette semplicemente non sono credibili. Abbiamo bisogno che le imprese creino un ciclo di ambizioni climatiche in cui la leadership del settore privato incoraggi e rafforzi l’azione ambiziosa del governo”. 

E ancora: un altro studio, pubblicato a settembre 2023 da un’équipe di scienziati della University of Queensland sulla rivista Nature Ecology & Evolution, ha sottolineato che il greenwashing, cui gli autori fanno riferimento come “la pubblicità fuorviante o ingannevole diffusa da un’associazione per presentare un’immagine pubblica [di se stessa] responsabile nei confronti dell’ambiente”, rappresenta una vera e propria minaccia per un mondo “nature-positive”, “in cui il declino ambientale si arresta e migliorano i risultati in termini di biodiversità”. Sembra che finalmente le istituzioni stiano iniziando ad ascoltare questi campanelli di allarme: pochi giorni fa il Parlamento europeo ha dato il via libera definitivo a una direttiva che migliorerà l’etichettatura dei prodotti e vieterà l’uso di dichiarazioni ambientali fuorvianti. In particolare, dicono da Bruxelles, “le nuove regole mirano a rendere l’etichettatura dei prodotti più chiara e affidabile, vietando l’uso di indicazioni ambientali generiche come ‘rispettoso dell’ambiente’, ‘rispettoso degli animali’, ‘verde’, ’naturale’, ‘biodegradabile’, ‘a impatto climatico zero’ o ‘eco’ se non supportate da prove. 

Sarà ora regolamentato anche l’uso dei marchi di sostenibilità, data la confusione causata dalla loro proliferazione e dal mancato utilizzo di dati comparativi. In futuro nell’Ue saranno autorizzati solo marchi di sostenibilità basati su sistemi di certificazione approvati o creati da autorità pubbliche. Inoltre, la direttiva vieterà le dichiarazioni che suggeriscono un impatto sull’ambiente neutro, ridotto o positivo in virtù della partecipazione a sistemi di compensazione delle emissioni (offset in inglese). Staremo a vedere se, e come, la norma verrà davvero applicata.

Sandro Iannaccone, fisico e giornalista. Insegna giornalismo scientifico al Master “La scienza nella pratica giornalistica” della Sapienza Università di Roma