IN VITRO VERITAS. DUBBI E CERTEZZE SUGLI ANTICORPI MONOCLONALI
Un centinaio di centri in tutta Italia somministrano anticorpi monoclonali. I pazienti migliorano, nonostante le difficoltà.
Aumentano in Italia i pazienti con sintomi lievi-moderati da SARS-CoV-2 trattati con anticorpi monoclonali. Un aumento non proprio consistente, ma costante. E tutti sembrano mostrare segni di miglioramento.
Le terapie a base di anticorpi monoclonali vanno somministrate con attenzione: bisogna selezionare i pazienti che potrebbero sviluppare forme gravi della malattia e l’insorgenza dei sintomi deve essere recentissima. Nonostante l’esigua applicabilità, i primi risultati positivi sono stati accolti con entusiasmo: ridurre la carica virale nelle prime fasi dell’infezione e, di conseguenza, il rischio di progressione verso forme gravi potrebbe alleggerire notevolmente la pressione sugli ospedali. Se gli anticorpi monoclonali saranno un’arma (farmacologica) in più contro il SARS-CoV-2 potrà dirlo solo il tempo.
Attualmente, un decreto del ministero della salute firmato il 6 febbraio scorso autorizza l’impiego di anticorpi delle aziende Eli Lilly e Regeneron Roche, e sono state acquistate 150 mila dosi da somministrare in circa 380 centri abilitati. Secondo i dati raccolti dal Messaggero, però, di questi centri ne sono realmente operativi soltanto un centinaio. Potrebbero essere cure efficaci, ma per esserlo davvero il fattore tempo è cruciale: il processo di somministrazione è lento e complicato, e non ci sono delle vere e proprie linee guida. Al momento, sembra quindi difficile dare una chance a questi trattamenti.
Prevalentemente utilizzati come terapie contro il cancro e le malattie autoimmuni, gli anticorpi monoclonali si sono rivelati utili anche per la cura di malattie infettive, in particolare quelle causate dal citomegalovirus e dal virus dell’epatite A e B.
Ma partiamo dall’inizio. Quando il nostro organismo entra in contatto con sostanze estranee reagisce producendo anticorpi. I linfociti b producono queste proteine che hanno il compito di identificare e, di norma, neutralizzare tutto quello che viene ritenuto estraneo. Per farlo, si legano a un’altra proteina chiamata antigene, che si trova sulla superficie di agenti patogeni come virus o batteri. Questo meccanismo non è, ovviamente, così semplice: la reazione immunitaria potrebbe richiedere tempo, e gli anticorpi vengono prodotti in tantissime forme diverse, non tutte ugualmente “potenti” per reagire adeguatamente alla minaccia esterna. Gli anticorpi monoclonali (in opposizione, appunto, a quelli policlonali) sono stati creati proprio per essere marcatamente efficaci contro un particolare antigene, essendo tutti identici poiché derivanti da un’unica linea cellulare. Mimando quello che accade naturalmente nel nostro corpo, nel 1975 Cesar Milstein e Georges Kohler misero a punto una tecnica di sintesi di questi anticorpi, una scoperta grazie alla quale vinsero il Nobel per la medicina nel 1984.
Dopo quasi 50 anni dalla loro scoperta, gli anticorpi monoclonali rappresentano uno dei settori più importanti della biofarmacologia moderna; ne sono stati prodotti circa un centinaio, e sono stati utilizzati sia come terapie che come strumenti diagnostici.
Un aspetto da tenere in considerazione è rappresentato dai costi elevati: produrre proteine biologiche non è esattamente economico, e la modalità di somministrazione per via endovenosa aggiunge anche la spesa per gli strumenti e il personale sanitario autorizzato.
Gli studi sull’impiego degli anticorpi monoclonali contro il SARS-CoV-2 sono ancora troppo recenti per poter rappresentare un’evidenza scientifica. D’altro canto, snellire le procedure di accesso a queste terapie per poter agire in tempo ed evitare l’ospedalizzazione (anche solo) di decine o centinaia di pazienti potrebbe contribuire a far rientrare una delle emergenze più pressanti, quella sanitaria.
Bilanciare costi e benefici, d’altronde, è una sfida davanti alla quale la scienza non si è mai tirata indietro.
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