Volere è potere: la sfida di Rosalyn Yalow
La pioniera della radioimmunologia che arrivò al Nobel nonostante le discriminazioni subite per essere donna oltre che ebrea
È il gennaio del 1939. Sono giorni intensi per Enrico Fermi, che si è appena trasferito a New York con la moglie Laura in seguito alla promulgazione delle leggi razziali da parte del regime fascista di Benito Mussolini. Laura, infatti, è di famiglia ebrea, e per lei vivere in Italia è diventato ormai troppo rischioso. Nel viaggio verso gli Stati Uniti, il mese precedente, Fermi aveva fatto tappa a Stoccolma per ritirare il premio Nobel per la fisica. Non pago, appena assunto alla Columbia University, ha già riprodotto in laboratorio l’esperimento di fissione nucleare dell’uranio. Una scoperta ancora poco nota oltreoceano, così l’università decide di organizzare un colloquium pubblico tenuto dallo stesso fisico italiano. Quando inizia la sua lezione in un’aula stracolma presso la Pupin Hall, Fermi non sa che ad ascoltarlo c’è una giovane studentessa diciassettenne: è di origine ebrea, come sua moglie, ma come lui è destinata un giorno a volare a Stoccolma per ricevere la massima onorificenza cui può ambire uno scienziato.
Quel giorno alla Pupin Hall, Rosalyn Sussman capisce che è scoccata una scintilla. L’attrazione per la conoscenza non le è mai mancata: lettrice precoce, da bambina si faceva accompagnare ogni settimana dal fratello Alexander alla Biblioteca Pubblica newyorkese, a caccia di nuovi libri da divorare. Con l’adolescenza, l’interesse si sposta sulle materie scientifiche, e sul suo comodino fa bella mostra di sé una biografia di Marie Curie scritta dalla figlia Eve. In quel periodo, però, è quasi impossibile resistere al fascino della nascente fisica nucleare. Rosalyn decide quindi che studierà fisica, costi quel che costi.
Sa bene, però, che la strada è in salita. Non certo a causa dei genitori, entrambi emigrati dell’est Europa, che non hanno fatto mai mancare a Rosalyn i mezzi e l’incoraggiamento necessari a portare avanti gli studi. Il problema è un altro. Nel 1940, Rosalyn ottiene il diploma superiore all’Hunter College con il massimo dei voti, ma nonostante le ottime credenziali nessuna università accetta la sua candidatura. Soltanto dalla Purdue University riceve una risposta sincera: «In quanto donna ed ebrea, crediamo che lei non potrebbe mai trovare un posto di lavoro in questo settore.»
Ma si sbagliano. Rosalyn, fin da piccola, ha un carattere testardo e determinato, e la sua insistenza è premiata. Nel 1941, l’Università dell’Illinois le offre finalmente una fellowship, complice anche la chiamata alle armi di molti giovani uomini americani in occasione della Seconda guerra mondiale. Tra i quattrocento membri della facoltà, Rosalyn è l’unica donna. Oltre a lei, ci sono altri due ebrei. Uno di questi, Aaron Yalow, attira presto la sua attenzione: appena due anni più tardi diventerà suo marito.
Nel 1945 i due conseguono insieme il dottorato e decidono di ritornare a New York, dove resteranno tutta la vita, prima in un appartamento di Manhattan, poi in una piccola e accogliente casa nel Bronx. Il legame con Aaron, figlio di un rabbino, non fa che rafforzare la già forte identità ebraica di Rosalyn. I due trasmetteranno anche ai loro figli, Benjamin ed Elanna, il rispetto per il Kosher, l’insieme delle regole religiose che governano l’alimentazione degli ebrei praticanti. E Rosalyn inviterà spesso i suoi colleghi di lavoro a festeggiare insieme a lei e la sua famiglia la Pasqua ebraica.
La svolta professionale per Rosalyn arriva nel 1947, quando incontra l’italo-americano Gioacchino Failla, decano della fisica medica negli Stati Uniti. A Failla basta poco per rendersi conto delle potenzialità di questa giovane donna discreta e determinata, e alza il telefono. Dall’altra parte della cornetta c’è Bernard Roswit, capo del servizio radioterapico del Bronx Veterans Administration Hospital. «Bernie, so che hai intenzione di attivare un’unità di ricerca sulle applicazioni dei radioisotopi. Bene, ho qui davanti a me una persona che devi assumere.»
Rosalyn dividerà per oltre vent’anni la gestione del laboratorio di ricerca radioisotopica del Bronx VA Hospital con un medico, Solomon Berson. Chi li ha visti lavorare insieme non ha mai mancato di sottolineare l’incredibile alchimia professionale tra i due, che a volta sfiora la telepatia: capita spesso che uno dei due «completi la frase iniziata dall’altro.»
Scientificamente parlando, la loro collaborazione porta a risultati eccezionali: nel loro laboratorio, Rosalyn Yalow e Sol Berson sperimentano per la prima volta la RIA (Radio Immuno Assay), il dosaggio radioimmunologico degli ormoni proteici, una tecnica diagnostica che oggi è utilizzata in tutto il mondo. Nel 1977 la scoperta è premiata con il Nobel per la medicina, e Rosalyn Yalow diventa la seconda donna ad aggiudicarsi il premio dopo Gerty Cori. Ma uno dei suoi più grandi rimpianti sarà quello di non averlo potuto condividere con l’amato collega. Sol Berson è infatti morto improvvisamente di infarto l’11 aprile 1972. Poco tempo dopo, il laboratorio che i due avevano condiviso per molti anni sarà intitolato, per volere di Rosalyn, alla memoria di Sol.
Anche dopo il raggiungimento del successo professionale, Rosalyn non farà mai mancare il suo impegno nella lotta contro la discriminazione femminile. Alla sua maniera: evitando la visibilità delle associazioni femministe, ma incoraggiando le giovani studentesse a intraprendere la carriera scientifica e impegnandosi affinché venissero sempre garantite pari opportunità nell’accesso agli studi. E quando ha l’occasione di parlarne davanti al mondo intero, al Banquet Speech di Stoccolma, non si tira indietro. Con parole che suonano amare e profetiche: « Pochissime donne oggi occupano posizioni di rilievo nella nostra società. Ciò è dovuto in larga parte a una discriminazione sociale e professionale. Non mi illudo che queste discriminazioni possano mai scomparire del tutto, e la situazione è destinata a cambiare molto lentamente. Ma noi donne dobbiamo credere di più in noi stesse, altrimenti nessuno crederà mai in noi.»
Credits immagine in evidenza: DiarioLibre
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